Il boom economico degli anni 50 dello scorso secolo aveva messo a nudo le contraddizioni implicite nella rinnovata fiducia nel primato della razionalità, del cognitivo, e quindi della riconferma di rapporti consequenziali quali quelli che conducevano dal piano all’architettura o più in generale dalla funzione alla forma.
Riproponendo quell’apparato teorico che agli inizi del secolo aveva assunto la logica della fabbrica e quindi della razionalità della produzione, a modello per una società piu’ giusta, finalmente emancipata dalle conquiste della tecnica e dalla ragione, la maggior parte della classe politica e intellettuale sia di destra che di sinistra, rimaneva ancora scollata dalla realtà di un sistema che, come nota Branzi, dopo lo sbarco degli Americani ad Anzio aveva fatto un notevole balzo in avanti rispetto al vecchio ordine Europeo legato ancora alla tradizione della storia.
Si era di fatto introdotto un sistema senza passato, figlio di una rivoluzione che aveva fatto della libertà individuale il suo massimo obbiettivo e che aveva da tempo avviato una piu’ matura fase del proprio sistema economico, conscio del valore delle contraddizioni come possibile motore di un continuo rinnovamento dei bisogni e quindi dei consumi, sotto l’alibi di un progressivo rinnovarsi del limite ”utopico” del benessere individuale.
D’altra parte già i futuristi in Italia avevano operato un notevole ribaltamento dell’ottica del progetto, che dalla macchina portava all’oggetto ”definitivo”, poi al suo spazio ”existenz-minimum” e quindi al ”piano sequenza” della città, introducendo all’inizio del processo di produzione la Metropoli come teatro mutevole e discontinuo, dove la continua esposizione alla condizione di shock urbano stimolava la creatività e garantiva un continuo rinnovamento dei modelli di comportamento.
La Metropoli testimonia della fine di quella visione unitaria della città storica, letta attraverso l’inquadramento fisico dello spazio prospettico, per realizzare una esperienza fatta di sequenze discontinue di brani e brandelli di città, che tra l’altro, abolendo la fiducia ”nell’armonica distanza tra interni, architettura e urbanistica”, avrebbe portato all’annullamento di qualsiasi distinzione tra spazio interno e spazio esterno della città, a favore di un universo tutto meccanico.
Sarà il movimento Situazionista a riprendere negli anni 50 le ipotesi futuriste e surrealiste sulla metropoli, ed in particolare il concetto di deriva, proponendo una lettura psicogeografica della città come personale sequenza percettivo-mnemonica, che di fatto allora realizzava una opposizione ”al crescente controllo poliziesco dello spazio cittadino, da parte di DeGaulle …con grandi spostamenti delle classi povere nelle nuove cinture residenziali cupamente funzionaliste.” (1)
Esattamente dieci anni piu’ tardi si apre la prima mostra della ”Superarchitettura”, che vede l’entrata in campo dei due giovani studi fiorentini, Archizoom e Superstudio, che partendo dalla critica delle utopie puramente formali di Archigram e Metabolism, che alla vecchia idea di Civiltà delle Macchine sostituivano l’eu-topia di una architettura ed una metropoli tutta meccanica, sperimentavano invece un’ utopia critica, come strumento di interpretazione e descrizione della realtà: una utopia strumentale e scientifica, che non si proponeva un modello differente da quello presente, ma semplicemente lo rappresentava ad un livello conoscitivo piu’ avanzato.
Partendo dall’analisi che per il Movimento Moderno l’industria avrebbe prodotto un grande ordine civile, formale e culturale del mondo umano e metropolitano, un universo razionale e logico, di cui l’architettura e il design prefiguravano, fin da subito, i segni di una unità linguistica e metodologica, la Superarchitettura capovolge per la prima volta la chiave di lettura di questa realtà: la complessità, le contraddizioni, e le discontinuità esistenti nel mondo fisico e sociale non sono assolutamente destinate a scomparire nell’ordine di un mondo industrializzato, perché esse sono il frutto piu’ maturo proprio dei processi di crescita dell’industria nel mondo.
Il caos non è una realtà provvisoria ma permanente.
”Occorre che le avanguardie si facciano carico di trasformare ”in bene” (in possibilità creativa) cio’ che fino a ieri era considerato un male, elemento di disturbo.
L’architettura dei gruppi fiorentini pone per prima la complessità come categoria centrale del cambiamento e assume a elemento positivo e di ricchezza la molteplicità dei linguaggi e dei comportamenti.
Assume la logica industriale come energia di diversificazione e non di omologazione: il futuro non sarà costituito da un mondo di standard, da robot, e da prodotti di grande serie, ma da logiche produttive contrastanti, dove il pezzo unico convive senza problemi con la produzione di massa, i linguaggi in codice con quelli anarchici, i prodotti definitivi con quelli provvisori, l’alta tecnologia con quella primitiva”. (2)
L’avanguardia italiana a differenza di quella inglese, austriaca o americana introduceva nuovi contenuti politici alla base delle operazioni di rinnovamento culturale.
” Al concetto naturalistico e dialettico del mercato, si era sostituito quello della sua completa artificialità, nel senso che il meccanismo di induzione di falsi bisogni era in grado di sostituire qualsiasi richiesta spontanea del mercato”
Contro i miti propri del Design degli anni 60, quali la flessibilità, la componibilità, la serialità Archizoom e Superstudio cercando di imporre una nuova oggettualità, piu’ solida e immanente, proponevano oggetti e spazi unitari solidi, immobili, aggressivi, nella loro forza fisica di comunicazione.
Analizzando le due piu’ grandi invenzioni del secolo in tema di architettura, la riflessione non poteva portare altro che a riconoscere come avevano contribuito allo smantellamento delle utopie qualitative per introdurre come unica utopia possibile quella della quantità ”che adottava la logica perversa del sistema”. Da una parte il grattacielo dopo aver distrutto l’architettura nel suo rapporto tradizionale tra pianta e alzato,suggerisce una possibile espansione nelle quattro direzioni orizzontali, mentre l’Unité distruggendo l’urbanistica, ha eliminato ogni differenza tra singolo edificio e città, riunendo in un unico piano verticale negozi teatri, scuole abitazioni: ”alle diverse funzioni urbane non corrispondono piu’ forme architettoniche diverse”.
Nel progetto il Monumento Continuo, Superstudio si interroga con una immagine su quale mai differenza ci sia tra l’utopia quantitativa della griglia razionale di Coketown e l’utopia ”negativa” del Monumento continuo che si staglia sullo sfondo delle casette, sovrastandole come un infinito grattacielo disteso. Cosi’ l’immagine finale della sequenza riproduce una vista aerea del M.C. che attraversa la penisola di Manhattan, lasciando un vuoto ”archeologico” dal quale spuntano come rovine un fascio di grattacieli attorno al mitico Empire State, a testimonianza di come la città del moderno fosse ancora luogo di contraddizioni non composte dalla forza omologante della tecnica e della scienza.
Elaborando un discorso al limite sulle possibilità dell’architettura come mezzo critico, usando sistematicamente la ”demonstratio quia absurdum” Superstudio tra il 1968 e il 70 ha prodotto un modello architettonico di urbanizzazione totale ”Il Monumento Continuo”, come termine ultimo di una serie di architetture che hanno segnato il pianeta fino alle città lineari degli utopisti del 900.
”…Eliminando miraggi e fate morgane di architetture spontanee, architetture della sensibilità, architetture senza architetti, architetture bologiche e fantastiche ci dirigiamo verso ”il monumento continuo”: un’ architettura tutta egualmente emergente in un unico ambiente continuo: la terra resa omogenea dalla tecnica, dalla cultura, e da tutti gli altri imperialismi….” (3)
Il gruppo fiorentino, cercando in realtà di superare il tentativo messo in atto dalla scuola romano-veneziana di restaurazione di un valore autonomo e metastorico delle forme e dei tipi della fabbrica urbana per la ricostruzione della città europea, si ricollegava e portava al limite l’utopia modernista della Città, immaginata da Le Corbusier e descritta nel progetto della Ville Radieuse, che già operava una separazione a ”layer” tra la Natura intesa come libera estensione sulla crosta terrestre della sua parte vegetale, come un parco continuo, e l’Architettura della città, concentrata in grandi volumi sospesi su pilotis.
D’altra parte lo stesso LC si poneva al termine di un processo di colonizzazione della natura da parte dell’architettura e di trasposizione metaforica dell’immagine della società, che era culminata nella rappresentazione del potere sovrano di Luigi XIV lungo le prospettive a perdita d’occhio dei viali di Versailles o di Vaux Les Vicomtes.
Allo stesso tempo aveva avuto modo di riflettere sul significato dell’inserto del grande rettangolo apparentemente selvaggio di Central Park, dove Holmstead mettendo in scena la Natura, aveva posto l’accento su un ”layer” idealizzato preesistente alla stesura della griglia di Manhattan, e ne aveva fatto pretesto di riscatto dalla densità di costruzioni del resto della penisola.
Il Monumento Continuo si colloca quindi al termine di una storia di opposizione tra natura naturans e natura naturata, ribaltando l’originale concetto di luogo come vuoto e radura nel fitto scuro della foresta primigenia, per giungere ad una architettura finale come luogo totalmente artificiale che spicca e attraversa la radura naturale della crosta terrestre resa omogenea dai processi politici e culturali del secondo capitalismo.
Cosi’ l’attraversamento di New-New York da parte del MC, simmetricamente lascia libero uno spazio, da cui fuoriescono i grattacieli, segni di un layer primitivo di architetture oggetto.
”Il MC disvela l’illusione dei miti della ragione, dell’egualitarismo: il mito dell’unità del progetto, dei linguaggi, delle tecnologie deve lasciare il posto ad un processo narrativo di discontinuità e parzialità sia tecniche che culturali.” (4)
A questo punto liberato il campo dall’opposizione natura-architettura, città-campagna, dall’aspetto oggettuale dell’Architettura, monumento finale di utopie totalizzanti e di grandi racconti che in nome di un ordine razionale avevano organizzato a sistema una visione puramente retinica della realtà, misurata dalla prospettiva, Superstudio propone con il progetto ”Supersuperficie” un’altra visione limite: una nuova realtà, che persi i suoi connotati solido-meccanici, oggettuali, di architetture come supporti tridimensionali di vita, si distribuisce su una griglia neutra, virtuale, di flussi di informazione e di energia come supporto di una organizzazione debole del territorio. Partendo dall’ipotesi del pianeta reso omogeneo attraverso una rete di energia e di informazioni, si ipotizzava un processo riduttivo per l’architettura ed un diverso controllo dell’ambiente senza il necessario impiego di sistemi tridimensionali.
” L’uso della terra avviene per mezzo di griglie di servizi e di comunicazioni . Le città ne costituiscono i nodi. La griglia è un sistema continuo ma non omogeneo. Nei vuoti avviene lo sfruttamento piu’ o meno intensivo del territorio…
Città come New York costituiscono un esempio didattico di utilizzazione funzionale di un territorio per mezzo di una griglia cartesiana. La penisola di Manhattan scomparsa sotto l’azione unificatrice del valore indotto ”…Ipotesi di controllo dell’environment per mezzo di energie (correnti artificiali, barriere termiche, radiazioni, ecc.). Verso la scomparsa delle membrane divisorie interno-esterno…” (5)
I tre progetti utopici ”Monumento Continuo”, ”Dodici città ideali”, ”Supersuperficie”, rappresentano quindi tre livelli di lettura della morfologia e della ideologia urbana.
”In luogo dei tradizionali strumenti di analisi politica , il Superstudio utilizza la parabola letteraria, l’enigma linguistico, conducendo la narrazione attraverso luoghi e visioni che rappresentano nel paradosso, le estreme conseguenze delle contraddizioni e delle illogicità della metropoli borghese.”
Nel frattempo anche il gruppo Archizoom riconoscendo al grattacielo e alla unitè il merito di aver introdotto come unica utopia possibile quella della quantità, ”che adotta la logica perversa del sistema”, progetta la ”No Stop City” , struttura urbana continua, che liberata dai problemi della forma architettonica diviene neutra struttura d’uso.
”In realtà anche la No Stop City, racconta Branzi, era un progetto mentale, una sorta di diagramma teorico di una città amorale, di una città senza qualità, come avrebbe detto Hilbersheimer; essa pero’ costituiva una importante analisi radicale della progettazione di architettura e di design, in cui portavamo alle estreme conseguenze proprio quella progettazione razionale di cui teorizzavamo la fine, cogliendone l’incapacità politica di proseguire quel filo rosso che univa le sue piu’ radicali esperienze: ”una architettura che non è piu’ architettura”, come diceva Hannes Meyer, o ”le case morte” di Adolf Loos.”(6)
Partendo dall’osservazione che i luoghi dove il sistema aveva realizzato compiutamente la sua logica erano la fabbrica e il supermarket, ne riconoscevano il ruolo di strutture urbane ottimali, le cui funzioni si organizzano tuttora liberamente su di un piano continuo reso omogeneo da un sistema diffuso di microclima.
L’immagine esteriore non esiste nel senso che il loro piano facciata non costituisce struttura linguistica, ma è superficie di contatto tra due situazioni a diverso livello di sviluppo, come il perimetro del terreno agricolo non rappresenta la forma della coltura.
”La No Stop City, introducendo su scala urbana il principio della luce e dell’areazione artificiale, evitava il continuo spezzettamento immobiliare tipico della morfologia urbana tradizionale : la città diventava una struttura residenziale continua , priva di vuoti e quindi priva di immagini architettoniche. I grandi piani attrezzati, teoricamente infiniti, o dei quali il perimetro non interessava assolutamente, penetrati da una griglia regolare di ascensori, potevano essere liberamente organizzati secondo funzioni diverse o secondo forme di aggregazione sociale nuova.”
Il traffico, la cui organizzazione territoriale veniva separata dalla forma urbana, poteva ricevere soluzioni ottimali: la No Stop City garantiva la macchina sotto casa e il massimo possibile di concentrazione demografica.
Scavalcando la categoria intermedia di organizzazione urbana costituita dall’architettura , la N S C coglieva un canale diretto tra metropoli e oggetti di arredo. La città diventava una sommatoria di letti, tavoli, sedie, e armadi; arredo domestico e arredo urbano coincidevano pienamente.” (7)
Superstudio e Archizoom decidono di interrompere la loro attività piu’ o meno nello stesso periodo (1973-74) allorchè Alessandro Mendini neo direttore di Casabella, riprendendo un suggerimento di Germano Celant, esce col numero 367 della rivista, dal titolo ”Architettura Radicale”. Ci apparve subito chiaro come con questa definizione, rinchiudendo in una gabbia linguistica la strategia di alcuni progettisti, ufficialmente se ne limitava l’azione, di fatto emarginando il loro pensiero, con buona pace della critica architettonica ufficiale che poteva finalmente dedicarsi ad un’opera di restaurazione disciplinare senza piu’ intralci lungo il cammino.
”Quando si producevano i progetti e le immagini, gli scritti e gli oggetti dell”’architettura radicale” l’architettura radicale non esisteva. Ora che questa etichetta esiste, l’architettura radicale non esiste piu’; in altre parole non si trattava di un ennesimo movimento o scuola con caratteri omogenei ben definiti ma di una serie di situazioni, intenzioni, comportamenti.
La negazione della disciplina e la distruzione della sua specificità sono state le tecniche liberatorie: l’ironia, la provocazione, il paradosso, il falso sillogismo e l’estrapolazione logica , il terrorismo, il misticismo, l’umanesimo, la riduzione ed il patetico sono state le categorie del fare di volta in volta usate.
Lo spostamento continuo, la discontinuità, e ”la mossa del cavallo” sono state le componenti motorie .” (8)
Questa etichetta di comodo ha continuato ha produrre ignoranza e isolamento fino alla Biennale del 1996 dove sotto il nome di ”Radicals” Gianni Pettena riunisce l’operato di un gran numero di architetti da Hollein, agli Archigram, da Isozaki a Koolhas, di fatto annullando il significato della definizione che appare finalmente niente altro che una banale riduzione di cio’ che dovrebbe rappresentare un normale uso del progetto di architettura.
D’altra parte, fuori dall’Italia, l’opera di Superstudio e Archizoom viene recepita non come attività marginale, ma come ricerca centrale del progetto, grazie anche ad alcune gite fiorentine di Arata Isozaki nel 1968 e di Rem Koolhas nel 1970 . Quest’ultimo allora giovane assistente presso l’ Architectural Association di Alvin Boyarsky a Londra, insieme a Tschumy e alla Hadid, si reca a Firenze per invitare alcuni componenti dei due studi a mostrare i propri progetti ai corsi della scuola. In effetti nel 1971 Architectural Design dedicando la copertina al Superstudio, ne pubblica integralmente il progetto ” Le Dodici città Ideali”. Da allora è tutto un susseguirsi di visite fino al bellissimo quanto criptico schizzo lasciato da un giovane Daniel Liebeskind sul nostro tavolo nel 1974.
”Ma chi interroga il Monumento continuo?” si chiede Dominique Rouillard in una conferenza tenuta al Centre Georges-Pompidou nel maggio 2000 e continua: ” Non varrebbe la pena di formulare la domanda riguardo ai riferimenti permanenti che hanno costituito i lavori di questi gruppi, dopo i primi prestiti sia formali che concettuali di Koolhas, Tschumy, Liebeskind o Coates a partire dal 1970, fino ai richiami odierni per una architettura nuovamente pensata come una non-forma, sia che questi riferimenti siano dati come presso i gruppi olandesi, o che siano al lavoro in una teoria dell’architettura che interroga ”il grado minimale di determinazione architetturale” o nelle ”scene contemporanee” dei collages di Actar.
MVRDV si riferisce esplicitamente al periodo perduto delle utopie degli anni 60, produzione trasmessa proprio in seno all’agenzia OMA, dove alcuni membri hanno trovato una formazione decisiva, come numerosi altri gruppi dopo anni di noia alla scuola di Delft.
In una seconda attivazione della storia MVRDV prende in prestito il metodo dei fotomontaggi, – ”riutilizzare senza piu’ attendere una parte di questa riflessione”- e istalla un limite incerto tra finzione e progetto reale, come se la posta fosse d’ora in poi di realizzare l’utopia – ”l’utopia del reale” che reclamavano gli anni 60 -, la dimostrazione del padiglione olandese a Hannover 2000. …Una delle vie sarà stata, non senza malizia, di ”continuare” l’utopia assurda di Archizoom e Superstudio, di sviluppare gli scenari demenziali che essi avevano limitato alla dimensione ”critica”, per l’inpossibilità di passare alla costruzione”.(9)
Come non vedere nelle foreste sovrapposte di Datatown (una città composta di dati 1999) la ripetizione della No Stop City di Archizoom , in Farmax o Costa Iberica e nel discorso sulla densità uno sviluppo delle ipotesi del Monumento Continuo di Superstudio, come illustrazione al limite della tendenza alla concentrazione del costruito lungo alcune direttrici (megalopoli) in alternativa alla dispersione (città diffusa).
”La ricerca degli ”estremi”, come si dice delle cime da raggiungere, purchè ”questi limiti appaiano, cio’ che rende possibile discuterne e creare un discorso intorno a loro”.
MVRDV con le montagne di rifiuti che raggiungono altezze alpine per il divertimento degli architetti in Olanda, riprende la storia e la dimostrazione ”visuale” cominciata dai gruppi fiorentini e la continua alla maniera con la quale Superstudio, nel progetto per Roma tratto dal ” Restauro dei centri storici” ( 1972) si dava a calcoli precisi , con numeri d’appoggio ( i ”dati” della terminologia olandese) per sommergere la città eterna nei propri rifiuti, preservando cosi’ le sue rovine dai danni dello smog, pur offrendo dei luoghi di scavi ricchi di tracce della nostra civiltà per gli archeologi del futuro. Diversamente in Olanda su quelle montagne di rifiuti si scierà. In un certo progetto MVRDV propone di allagare una gran parte di Rotterdam per accentuare il carattere marittimo della città, evocando direttamente il ”restauro” immaginato dal Superstudio per Firenze (1971): inondare la valle dell’Arno per ritrovare il suo ”stato d’origine” , trasformando la cupola del Brunelleschi, emergente dalle acque del lago, in una grossa boa di regata per velisti.
La precisione dei calcoli e la poesia del collage, come il riflesso delle montagne che emergono dal lago del ”settore rifiuti” di Datatown dopo un milione di anni partecipano della verosimiglianza assurda della scena. MVRDV prende in prestito sia l’andatura (estremista) che la forma (progettuale) dell’ ”utopia critica” immaginata da Archizoom e Superstudio e Il Monumento Continuo si iscrive nell’opera di decostruzione dell’oggetto architetturale con l’intento di mettere la vita e l’evento al posto dell’architettura.” (10)
Quella che per noi era un’utopia critica o come noi dicevamo un’utopia negativa, interpretata come eu-topia nell’Italia degli anni 70, ha visto venire alla luce la costruzione di una nutrita serie di megastrutture che hanno attraversato le nostre periferie urbane, di fatto portando al limite il pensiero razionalista della città divisa per zone, per cui l’assenza di mix sociale le ha presto trasformate in ghetti simbolo di un concetto classista della città, favorendo da una parte il ritorno alle figure della città tradizionale , dall’altra il mito della casetta isolata, della ”country house”, che presto ricoprirà a macchia d’olio gli spazi residuali della città.
Oggi la ripresa di tali sistemi di rappresentazione critica, oltremodo stimolati dalla capacità di visualizzazione virtuale del mezzo elettronico, testimonia dell’accettazione della duplice pratica del progetto come attività di ricerca e di costruzione dell’ambiente, del suo dilatarsi tra la piccola e la grande scala, del suo utilizzare spesso piu’ linguaggi, e accettare l’indeterminatezza e la continua evoluzione, di fatto costruendo di volta in volta scenari di riferimento che possono anche coincidere con il progetto finale.
Le nuove utopie critiche cercano di portare al limite di volta in volta i concetti di densità e rarefazione, pianificazione e auto-organizzazione, per meglio comprendere le varie sfaccettature in evoluzione di quella che puo’ essere oggi considerata la città planetaria. Metacity-Datatown, Multiplicity, Genericity, Specificity, Pigcity, Edge-city, Publicity, descrivono di volta in volta lo sviluppo della megalopoli tridimensionale o la sterminata estensione sul piano di favelas e di case unifamiliari, nuovi urbanesimi e città disney, in un continuo oscillare tra sistemi urbani misti spontanei e strutture chiuse altamente formalizzate, vere eu-topie realizzate come scenari teatrali.
Mentre il pianeta si avvia a diventare un’unica estesa città, con alcuni addensamenti come nodi della rete di infrastrutture o come fusione in sequenze lineari lungo direttrici portanti, vi è ancora uno spazio intermedio che partecipa all’ultimo confronto tra natura e architettura, dove la prima è stata quasi interamente antropizzata, dalle pratiche agricole, dal turismo e dalle altre sempre piu’ numerose pratiche di addomesticamento: lo spazio di Landscape-city.
1- L. Andreotti, Pratiche ludiche dell’urbanistica situazionista, Lotus 108, Electa 2001
2- A. Branzi, La casa calda, Idea Books 1984
3- G. Pettena a cura di, Superstudio, Electa 1982
4- A. Branzi, La casa calda, Idea Books 1984
5- G. Pettena a cura di, Superstudio, Electa 1982
6- A. Branzi, La casa calda, Idea Books 1984
7- A. Branzi, La casa calda, Idea Books 1984
8- G. Pettena a cura di, Superstudio, Electa 1982
9- D. Rouillard, Superstudio Monument Continu 1969, AMC 115, 2001
10- D. Rouillard, Superstudio Monument Continu 1969, AMC 115, 2001